21 giugno 2016

Storia d'amore quasi eterno

La notai sul 786 che mi portava all'Istituto Tecnico Commerciale, un giorno di primavera di tanto tempo fa. Difficile ricordare quante volte incrociai il suo sguardo su quell'autobus affollato, ma furono senz'altro tante. Era bellissima, non saprei definirla diversamente. Aveva la pelle chiara, quasi eterea e i capelli lisci e neri che le incorniciavano il viso con grazia infinita, ma a colpirmi maggiormente furono i suoi occhi, che erano scuri e malinconici quanto i miei.

Andò avanti per qualche giorno, sguardi sognanti e bocche serrate che di tanto in tanto si contraevano per reprimere un sorriso. Sapevo che si stava mettendo bene, me ne rendevo conto, eppure non trovavo il coraggio di farmi avanti per paura di sciupare quei momenti di muta attrazione reciproca. Forse ero semplicemente troppo timido. Un venerdì, stanca di aspettare, fu lei a prendere l'iniziativa. In realtà fu la sua amica a metterla di peso davanti a me. Cosa disse? Sennò voi chissà quanto tempo sprecate. Probabilmente aveva ragione.

Una volta rotto il ghiaccio bastarono poche parole a sciogliere l'imbarazzo, così saltò fuori che abitavamo a mezzo chilometro di distanza l'uno dall'altra. Incredibile, vero? Parve scontato darci appuntamento davanti alla Stazione Trastevere, una volta terminate le rispettive lezioni.

Mentre camminavamo mi chiese se volessi andare a casa sua. Risposi di si con un pizzico di apprensione, preoccupandomi di come sarei stato accolto dai suoi genitori, considerando che avevo i capelli lunghissimi e i jeans strappati. Prevedevo occhiate di sfida, il classico duello generazionale, invece il padre mi guardò con sorprendente indifferenza. Tanto meglio. Lei mi condusse in salone, si sedette al pianoforte e suonò Yesterday, dedicandomela. Poi salimmo in camera sua, dove c'erano un sacco di dischi sparsi sul pavimento.  "Ti piacciono i Rolling Stones ?"  "Si, certo". A dire il vero conoscevo Satisfaction, Jumping Jack Flash e poco altro, ma non aveva molta importanza: la nostra prima colonna sonora si diffuse nella stanza intasando gli spazi vuoti. Parlammo moltissimo, di un sacco di cose e dimenticai di tornare a casa per pranzo. Quando arrivarono i titoli di coda promise di prepararmi una cassetta con i migliori brani degli Stones. Quella notte faticai non poco a prendere sonno, i miei pensieri erano troppo rumorosi per sperare di dormire.

L'indomani disertammo la scuola e ce ne andammo in giro per Roma. Poi arrivò il primo bacio, su una panchina, mentre la tenevo stretta e mi perdevo negli stessi occhi che mi avevano fatto innamorare. Era meravigliosa, il mio piccolo rock and roll, come cantava Keith Richards in Little T & A. Passò qualche giorno e facemmo l'amore e continuammo a farlo le settimane successive. Era la cosa più bella che mi fosse mai capitata, a volte stentavo a crederci, mi sentivo il ragazzo più fortunato del mondo. Su un ponte, accarezzati dal tiepido sole di marzo, ci giurammo amore eterno. Io di eternità ne sapevo poco, ma sembrava un sacco di tempo da passare insieme a lei.

Sette mesi ed era tutto finito, perché ci sono stelle che bruciano più in fretta di altre, non dipende da noi. Ci misi un sacco di tempo a farmene una ragione. Forse anche lei.

Qualche anno dopo mi ritrovai a pochi metri di distanza dai Rolling Stones. Erano in forma strepitosa e Mick Jagger sembrava un ragazzino. All'improvviso, mentre mi godevo il concerto della vita la primavera scese sullo stadio, ricolorandolo da cima a fondo. La musica era assordante, ma non riuscì a riempire il vuoto che sentivo dentro. Freneticamente, come se ne andasse della mia stessa vita, presi a cercare il suo volto fra migliaia di facce estranee, quasi ostili. Chissà se c'eri, piccolo rock and roll.

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